Per Dilma Rousseff, presidente eletta con il 51% dei voti al ballottaggio nel 2014, il 17 aprile 2016 segna la chiusura di un ciclo di ingovernabilità che la perseguita da quando fu rieletta. Il risultato della votazione del processo d’impeachment svolto nel Congresso Nazionale non lascia dubbi. Infatti, con una maggioranza di più di due terzi del parlamento, sostenuto da una proporzione ancora maggiore di persone sulle piazze (le città furono occupate e divise tra gruppi pro e contro impeachment), i deputati brasiliani, in diretta tv, diedero durante sei ore al pubblico uno spettacolo pauroso del loro voto presentato come un gesto contro la corruzione, in nome di Dio, della patria, della mamma, del figliolo neonato, ecc. Tutto questo fu “la crème de la crème” del fallimento della politica come espressione della sovranità di un popolo, perché crediamo che quest’ultimo agisca diversamente da loro.
Dilma Rousseff fu accusata di “crimine di responsabilità” per avere permesso la contrattazione di prestiti in una banca pubblica per chiudere il bilancio deficitario del 2015, defraudando con questo “anticipo” di annata la legge di responsabilità fiscale. Questo argomento giuridicamente fragile, anche perché trattasi di un fenomeno ricorrente nei governi precedenti e anche effettuato da governi di altri stati – il Brasile è una Repubblica di Stati federati – fu contestato dal governo che accusa i suoi avversari di essere sul punto di fare un colpo di stato travestito da processo criminale. In fin dei conti si può dire che il giudizio contro la presidente fu più politico che giuridico, anche perché la denuncia fatta da avvocati del principale partito di opposizione fu accettata dal presidente della Camera dei Deputati (Eduardo Cunha, nemico dichiarato del governo e anche lui imputato per evasione fiscale) e giudicata, infine, dai suoi colleghi legislatori e non dai magistrati. Ora, toccherà al Senato decidere se accettare o no la decisione favorevole della Camara, sotto lo sguardo vigile della Corte Suprema, che non può dare il proprio giudizio.
Il sistema politico brasiliano, il presidenzialismo di coalizione, è un modello pieno di vizi. È da sottolineare la difficoltà di ottenere e mantenere la maggioranza di deputati e senatori appartenenti a oltre 30 diversi partiti politici, sistema fautore di una sorta di clientelismo e favoreggiamenti personali, che non poche volte ha portato il paese a crisi di governabilità lunghe, superate con molta fatica, come avvenne durante il processo di impeachment di Fernando Collor de Mello nel 1992, o addirittura insuperabili come quella che portò i militari al potere nel 1964.
Questo modello politico schizofrenico diviso tra presidenzialismo e parlamentarismo trova nello statuto costituzionale dell’impeachment presidenziale una specie di perdita della fiducia parlamentare del (sul) modello italiano, però a prezzo di un esaurimento del processo politico.
La causa immediata della perdita di governabilità di Rousseff, d’altra parte, è più di natura economica che politica. Infatti, il Brasile fa i conti con delle difficoltà nel bilancio dei pagamenti almeno fin dal 2013, anno in cui, come scrissero i media italiani, “Il Brasile scese in piazza”. Difficoltà che si prolungarono durante l’anno dei mondiali di calcio e scoppiarono nel 2015, primo anno del governo Rousseff già rieletta, con un grosso arretramento del PIL dell’ordine del 4%, rimbalzata allo stesso livello quest’anno. Nonostante il malessere dell’economia, la presidente riuscì a farsi rieleggere, probabilmente non avrebbe fatto questa fine, se non si fosse anche aggiunta l’azione delle procure e di magistrati di minore rilievo, incarnati nella figura del giudice Sérgio Moro, alla testa dell’Operazione Lava Jato (Autolavaggio), una sorta di Mani Pulite brasiliana. Infatti, fu soltanto all’inizio del 2015, quando arrivarono al pubblico le denunce sull’uso elettorale delle tangenti per il Partito dei Lavoratori (PT) - in gran parte originate dalle sussidiarie di servizi della Petrobrás - che le caldaie antagoniste al partito di governo, sia nella destra politica come negli agenti del mercato, accese a pieno vapore dalla propaganda non stop nei media liberali (Globo, la principale rete de TV e Folha de S. Paulo, il principale giornale del paese) cominciano a fumare chiedendo la testa della presidente.
Per renderci conto dell’ampiezza della corruzione, più o meno 220 deputati di un totale di 513 sono imputati per qualche tipo di denuncia alla Suprema Corte, senza contare altrettanti senatori pure loro imputati. Oltre il PT (programmaticamente spostandosi dalla sinistra al centro), i due principali partiti di appoggio al governo – che poi l’hanno tradito – PMDB (Movimento Democratico Brasiliano, il maggior partito del paese, di centrodestra) e il PP (Partito Progressista, di destra), entrambi partiti di scambio di posti nella macchina statale per voti che, trasmutandosi, stanno al governo fin dagli anni Sessanta, hanno quasi il 40% dei loro deputati coinvolti in qualche scandalo di corruzione. Addirittura il vicepresidente Michel Temer, che può arrivare d’improvviso al potere, è fra gli accusati e anche il presidente del Senato, Renan Calheiros, si trova coinvolto in altrettanti scandali di tangenti, oltre al già citato Cunha. Non soltanto i politici della vecchia base governativa, che si è disfatta, stanno tra i numerosi denunciati dalla Lava Jato, ma anche congressisti della opposizione che giravano le tangenti per i servizi concessi dallo Stato persino prima dell’arrivo di Lula al potere nel lontano 2003.
Dunque, se si dovesse andare fino in fondo, poco resterebbe della politica e dei politici attuali. Questo fatto sostiene la domanda di nuove elezione richiesta dai partiti di sinistra e di centro-sinistra, o di modifica del regime di governo verso il parlamentarismo, un modo di salvare la propria pelle, che viene articolata nei corridoi del Senato tra gli sconfitti del 2014 (per primo l’ex-candidato del PSDB nel 2010 José Serra, la “socialdemocrazia” di centrodestra) con dissidenti della base d’appoggio del governo. Comunque, l’anticipazione delle elezione non trova l’appoggio nella maggior parte delle volpi politiche che vedono il rischio dell’emergenza di un outsider di estrema destra, o del voto del fondamentalismo neo-pentecostale – un quarto dell’elettorato brasiliano che si mostrò forte e accanito nella sua falsa difesa morale – o pure di un’incognita come Marina Silva, già candidata per i Verdi, o addirittura il rischio, per loro, del ritorno di Lula.
La presidente del PT - alla fine anche lei in sua difesa ha lasciato il posto di capo di Stato e ha assunto quello di capo dei suoi elettori - ex-guerrigliera, funzionaria statale di carriera, di polso, facendo il contrario della politica, è diventata una sorta di capro espiatorio delle masse e viene sacrificata per vendetta. Una vendetta diffusa che venendo dalla destra individualista oltre che dalla corruzione, spara contro il comunismo, contro il sindacalismo, contro i senza terra, ma che si muove anche tra i vecchi simpatizzanti del PT che lo vedono traditore delle sue origine più “socialiste”, del suo discorso di non sporcarsi le mani nella politica, della difesa intransigente dell’etica. L’ascesa al potere di Lula e del PT nel 2003, fu allo stesso tempo l’apice e il crollo, direi in più, il fallimento della sinistra brasiliana. Tra il 2003 e il 2007 il PT perse la maggior parte della sua sinistra. Sia le dissidenze leniniste, impossibilitate di spazio nel centralismo democratico egemonico del chiamato lulo-petismo, piccoli gruppi di una decina di persone che rifondarono inespressivi partiti detti comunisti, o un gruppo più grosso e eterogeneo di socialisti marxisti e non marxisti che ha fondato il PSOL, Socialismo e Libertà, tra i primi a fare la denuncia dell’uso della macchina pubblica da parte del governo per mantenersi al potere. Dobbiamo anche indicare il distacco della sua base verde, scandalizzata con la politica pro Ogm e pro agroindustria, che si è ricomposta più tardi intorno alla Rede di Marina. Poco a poco il governo perse le sue basi di appoggio non corporative, rimanendogli i sindacalisti della CUT (specie di CgiL) ormai con posti al ministero del Lavoro, i dipendenti diretti dello stato, lo staff dirigente del MST (Senza Terra) e i suoi clienti favoriti della riforma agraria selettiva, un movimento sempre meno attivo nel campo, e per ultimo gli rimane l’appoggio dei direttamente interessati ai programmi sociali assistenziali. Lo scioglimento delle sue basi sociali politicamente più organizzate spiega in parte la sua lentezza nell’ articolare la difesa in piazza, fatta alla vigilia del processo d’impeachment tramite una politica di carattere nettamente populista.
Gramsci vide in Lenin il Principe condottiere della Rivoluzione Russa, l’uomo capace di portare la nave nel sicuro porto bolscevico nel 1921, introducendo con i due passi indietro la nuova politica economica. Sappiamo, purtroppo il risultato, che fine fecero la lotta e la speranza di moltissimi compagni russi veramente socialisti e anarchici. Chico de Oliveira, scienziato politico fondatore del PT e ormai da anni allontanato dal partito, nel suo saggio del 2003 su l’ornitorinco fece lo stesso paragone con una grossa differenza. L’arrivo di Lula al potere si è dato senza scambi strutturali nel paese, dominato dal dibattito economico sulla crescita, di sempre. Per Oliveira, l’opportunismo era evidente nella scelta con cui Lula scambiò l’appoggio alla politica sociale del PT, di sussidi ai più poveri, stabilendo rapporti con i settori più arretrati del conservatorismo politico, capi storici regionali, e con chi era pronto di nuovo a rapinare la roba pubblica, molti dei quali già criminali nei loro luoghi d’origine. Le politiche assistenziali garantirono la rielezione di Lula e lo fecero fare anche al suo successore, ma gli costarono, tra altri equivoci di politica economica come lo sfruttamento senza precedenti del territorio a costo delle popolazioni tradizionali, principalmente, la sistemazione della macchina dello Stato in mano a politici, molti arrivisti legati anche al PT, che si arricchirono in fretta con l’ingrandimento capillare di una già ben montata macchina di tangenti interna allo Stato.
Il fallimento del PT e per conseguenza della sinistra tradizionale che aspira al potere, porta allora anche al fallimento della politica in Brasile, o almeno porta a questo grosso vuoto della politica che ora vediamo, in una democrazia di poco più di trent’anni emersa alla fine della dittatura nel 1985. Un fallimento visibile anche nell’indifferenza con cui i più giovani osservano quel che succede. Un ultimo dato per capire il profilo dei manifestanti pro impeachment: in maggioranza sono uomini, di livello universitario, con reddito superiore alla media nazionale e con più di quarantanni. Un manifestante diverso da quelli che timidamente nel giugno del 2013 scesero in piazza per la prima volta per chiedere la gratuità dei mezzi pubblici e democratizzare la forma della politica: donne e uomini di livello universitario, con reddito inferiore alla media nazionale e con meno di trentanni. A questi, il governo dei lavoratori mostrò il bastone con le nuovi leggi antiterrorismo (tra le quali quella di associazione a delinquere), che col giro della storia, sono state invocate dall’ “intoccabile” Sérgio Moro per richiedere le intercettazioni telefoniche dell’ex-presidente Lula, conversazione che una volta diventata pubblica fece precipitare l’attuale situazione, dalla quale aspettiamo i prossimi capitoli
Speriamo che in un futuro breve siano di nuovo questi manifestanti ragazzi e ragazze, meno numerosi, ma attivi autonomisti per la gestione del territorio, in grado di rioccupare le piazze del paese per protestare e cercare di realizzare un desidero minoritario, ma vivo, di democrazia diretta.
Carlo Romani, con l’aiuto di Giovanni Stiffoni